La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 8 luglio 2022 n. 26435, ha ribadito – in tema di amministratore “di fatto” – che il soggetto che assume, in base alla disciplina dettata dall’art. 2639 cod. civ., la qualifica di amministratore “di fatto” di una società è gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”. Pertanto, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest’ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40, comma secondo, cod. pen.
Come evidenziato dalla Corte, si tratta di un principio di diritto che trova fondamento nella sostanziale equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto e che ha una portata generale, che vale anche nel campo dei reati tributari in relazione a tutti i comportamenti commissivi o omissivi dell’amministratore di diritto, essendo tenuto l’amministratore di fatto ad impedire le condotte vietate riguardanti l’amministrazione della società ovvero pretendere l’esecuzione degli adempimenti imposti dalla legge, con la conseguente responsabilità dello stesso in sede penale ex art. 40, comma secondo, cod. pen.
La medesima pronuncia, nel considerare anche i profili sanzionatori, ha ribadito il principio per cui, in quanto formalmente circostanza aggravante, alla cd. continuazione fallimentare deve applicarsi l’art. 69 cod. pen. e, pertanto, nell’ipotesi in cui vengano contestualmente riconosciute una o più attenuanti, la stessa deve essere posta in comparazione con queste ultime, con la conseguente esclusione della possibilità di irrogare l’aumento di pena previsto dall’art. 219 qualora all’esito del giudizio di bilanciamento la “circostanza” in questione venga ritenuta equivalente o minusvalente.